
A cura del'avv. Paolo La Manna
Nel diritto amministrativo
processuale, la c.d. “prova di resistenza” individua il momento in cui
il ricorrente è tenuto a dimostrare che l’atto impugnato, ritenuto lesivo, supererà
il vaglio di una tutela giurisdizionale effettiva e non puramente astratta. In
altri termini, non sarà sufficiente allegare un vizio nel provvedimento,
occorrendo anche che si evinca, in modo concreto e persuasivo, che
l’eliminazione o la correzione dell’atto ritenuto lesivo produrrebbe un
vantaggio certo e non meramente ipotetico per la posizione giuridica del
ricorrente.
La giurisprudenza ha avuto
modo più volte di confermare con estrema chiarezza che la sussistenza dell’interesse
ad agire (e dunque la prova della resistenza) non costituisce un mero
requisito formale, bensì una condizione sostanziale dell’azione che deve essere
accertata con prudente bilanciamento tra onere del ricorrente e possibilità di
concreta verifica da parte del giudice.
Si veda, ad esempio, in tal senso,
quanto statuito dal TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 03/02/2025, n. 283, secondo
cui “la giurisprudenza è costante nell’affermare che, nel processo
amministrativo, la sussistenza dell’interesse a ricorrere implica la necessità
lo stesso sia valutato in concreto, al fine di accertare l’effettiva utilità
che può derivare al ricorrente dall’annullamento degli atti impugnati, così che
deve essere dichiarata inammissibile per carenza di interesse l’impugnazione
dell’aggiudicazione di una gara pubblica qualora da una verifica a priori (c.d.
prova di resistenza) non risulti con sufficiente sicurezza che l’impresa
ricorrente possa risultare aggiudicataria in caso di accoglimento del ricorso,
(cfr., Consiglio di Stato, sez. III, 17 dicembre 2015, n. 5696 e, da ultimo,
Consiglio di Stato, sez. III, 4 dicembre 2024, n. 9727)”.
In tema di concorsi
pubblici, così come in tema di gare e appalti, la prova della
resistenza assume una particolare ed evidente incisività. Difatti, la parte che
impugna un provvedimento selettivo ha l’onere di indicare con chiarezza – anche
mediante confronto quantitativo tra offerte – che l’annullamento troverebbe
utilità nella sua riammissione o nella sua aggiudicazione. Al riguardo, la
pronuncia del TAR Lazio, sez. III Quater, 20 giugno 2023, n. 10481, ha chiarito
che un gravame contro valutazioni di punteggi deve essere supportato da una
dimostrazione anticipata che, “se le operazioni si fossero svolte
correttamente, la ricorrente sarebbe risultata con elevata probabilità,
prossima alla certezza, aggiudicataria”.
Un’evoluzione significativa
della nozione di prova della resistenza, tuttavia, si rinviene anche nell’ambito
del contenzioso tributario, processo in cui la categoria è stata
progressivamente valorizzata quale strumento di selezione delle impugnazioni
prive di reale utilità. La giurisprudenza di legittimità, difatti, ha applicato il principio anche oltre il
perimetro tradizionale del processo amministrativo, affermando che il
contribuente, per contestare efficacemente l’atto impositivo o l’operato
dell’amministrazione finanziaria, deve dimostrare in modo specifico e concreto
che la violazione del contraddittorio endoprocedimentale o di altre garanzie
partecipative abbia inciso sul contenuto dell’atto e che, se tale garanzia
fosse stata rispettata, l’esito del procedimento avrebbe potuto essere diverso.
In questa prospettiva, la Cassazione civile, sez. V, 6 ottobre 2020, n. 21376,
e già in precedenza la sentenza 23 maggio 2018, n. 12832, hanno precisato che
l’illegittimità procedimentale non basta, di per sé, a fondare l’annullamento
dell’atto impositivo. Occorre, in vero, una concreta dimostrazione della sua
incidenza lesiva.
Tuttavia, non può sottacersi
che tale prova non deve degenerare in un’anticipazione del merito, né tradursi
in un’automatica richiesta di dimostrazione dell’esito favorevole
dell’impugnazione, il che costituirebbe un onere non aderente alla realtà
processuale. Il bilanciamento tra l’esigenza di effettività del giudizio e la
tutela dallo strumentalismo processuale impone che il giudice amministrativo
valuti la prova della resistenza non con criteri meramente formali, ma
considerando il contesto normativo e fattuale, il grado di specificità delle
allegazioni e la possibilità stessa di accertamento in via processuale.
Sul piano operativo, non vi è
dubbio che il giudice può dichiarare il ricorso inammissibile per carenza di
interesse, qualora risulti con chiarezza che, anche in caso di accoglimento,
non ci sarebbe utilità alcuna per il ricorrente.
In parole semplici e quale
esempio, in un contesto di gara, se l’amministrazione resistente dimostra – e
non è contestato – che, anche attribuendo il massimo punteggio richiesto alla
ricorrente, questa non raggiungerebbe la classifica dell’aggiudicataria, il
ricorso può venir respinto per mancanza di prova di resistenza (principio
evincibile, peraltro, anche da recenti pronunce in materia di appalti, tra cui Cons.
Stato, Sez. V, 21 febbraio 2025, n. 1456).
Dunque, l’orientamento case-based
e dottrinale più attuale invita perciò a un uso misurato e consapevole della
prova della resistenza: essa non deve gravare in modo insostenibile sul
ricorrente, ma neppure essere considerata un ostacolo fittizio, dovendosi
ritenere innegabile la sua utilità, anche a fini deflattivi del contenzioso.
Alla luce di tali
considerazioni, appare opportuno che l’applicazione della prova della
resistenza mantenga un equilibrio tra l’esigenza di evitare un contenzioso
privo di reale utilità e la garanzia, comunque indiscutibile, di un accesso
effettivo alla giustizia. Un utilizzo eccessivamente formalistico di questo
strumento rischierebbe di tradursi in una barriera ingiustificata, comprimendo
il diritto di difesa e l’effettività della tutela giurisdizionale; al
contrario, una lettura troppo indulgente vanificherebbe la funzione deflattiva
e di razionalizzazione del processo.
La prospettiva più coerente
sembra dunque quella che interpreta la prova di resistenza come criterio di
serietà dell’azione: un filtro sostanziale che richiede al ricorrente di
dimostrare la non inutilità della decisione, senza pretendere un’anticipazione
piena dell’esito favorevole. In tal modo, il processo amministrativo, così come,
d’altra parte, quello tributario, può perseguire la duplice finalità di
efficienza e giustizia sostanziale, evitando al contempo ricorsi strumentali e
ingiustificate preclusioni all’esercizio del diritto di agire.