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La c.d. “prova di resistenza” nel giudizio amministrativo: limiti, prospettive ed estensioni al contenzioso tributario

01/10/2025

A cura del'avv. Paolo La Manna

Nel diritto amministrativo processuale, la c.d. “prova di resistenza” individua il momento in cui il ricorrente è tenuto a dimostrare che l’atto impugnato, ritenuto lesivo, supererà il vaglio di una tutela giurisdizionale effettiva e non puramente astratta. In altri termini, non sarà sufficiente allegare un vizio nel provvedimento, occorrendo anche che si evinca, in modo concreto e persuasivo, che l’eliminazione o la correzione dell’atto ritenuto lesivo produrrebbe un vantaggio certo e non meramente ipotetico per la posizione giuridica del ricorrente.

La giurisprudenza ha avuto modo più volte di confermare con estrema chiarezza che la sussistenza dell’interesse ad agire (e dunque la prova della resistenza) non costituisce un mero requisito formale, bensì una condizione sostanziale dell’azione che deve essere accertata con prudente bilanciamento tra onere del ricorrente e possibilità di concreta verifica da parte del giudice.

Si veda, ad esempio, in tal senso, quanto statuito dal TAR Sicilia, Palermo, Sez. II, 03/02/2025, n. 283, secondo cui “la giurisprudenza è costante nell’affermare che, nel processo amministrativo, la sussistenza dell’interesse a ricorrere implica la necessità lo stesso sia valutato in concreto, al fine di accertare l’effettiva utilità che può derivare al ricorrente dall’annullamento degli atti impugnati, così che deve essere dichiarata inammissibile per carenza di interesse l’impugnazione dell’aggiudicazione di una gara pubblica qualora da una verifica a priori (c.d. prova di resistenza) non risulti con sufficiente sicurezza che l’impresa ricorrente possa risultare aggiudicataria in caso di accoglimento del ricorso, (cfr., Consiglio di Stato, sez. III, 17 dicembre 2015, n. 5696 e, da ultimo, Consiglio di Stato, sez. III, 4 dicembre 2024, n. 9727)”.

In tema di concorsi pubblici, così come in tema di gare e appalti, la prova della resistenza assume una particolare ed evidente incisività. Difatti, la parte che impugna un provvedimento selettivo ha l’onere di indicare con chiarezza – anche mediante confronto quantitativo tra offerte – che l’annullamento troverebbe utilità nella sua riammissione o nella sua aggiudicazione. Al riguardo, la pronuncia del TAR Lazio, sez. III Quater, 20 giugno 2023, n. 10481, ha chiarito che un gravame contro valutazioni di punteggi deve essere supportato da una dimostrazione anticipata che, “se le operazioni si fossero svolte correttamente, la ricorrente sarebbe risultata con elevata probabilità, prossima alla certezza, aggiudicataria”.

Un’evoluzione significativa della nozione di prova della resistenza, tuttavia, si rinviene anche nell’ambito del contenzioso tributario, processo in cui la categoria è stata progressivamente valorizzata quale strumento di selezione delle impugnazioni prive di reale utilità. La giurisprudenza di legittimità, difatti, ha  applicato il principio anche oltre il perimetro tradizionale del processo amministrativo, affermando che il contribuente, per contestare efficacemente l’atto impositivo o l’operato dell’amministrazione finanziaria, deve dimostrare in modo specifico e concreto che la violazione del contraddittorio endoprocedimentale o di altre garanzie partecipative abbia inciso sul contenuto dell’atto e che, se tale garanzia fosse stata rispettata, l’esito del procedimento avrebbe potuto essere diverso. In questa prospettiva, la Cassazione civile, sez. V, 6 ottobre 2020, n. 21376, e già in precedenza la sentenza 23 maggio 2018, n. 12832, hanno precisato che l’illegittimità procedimentale non basta, di per sé, a fondare l’annullamento dell’atto impositivo. Occorre, in vero, una concreta dimostrazione della sua incidenza lesiva.

Tuttavia, non può sottacersi che tale prova non deve degenerare in un’anticipazione del merito, né tradursi in un’automatica richiesta di dimostrazione dell’esito favorevole dell’impugnazione, il che costituirebbe un onere non aderente alla realtà processuale. Il bilanciamento tra l’esigenza di effettività del giudizio e la tutela dallo strumentalismo processuale impone che il giudice amministrativo valuti la prova della resistenza non con criteri meramente formali, ma considerando il contesto normativo e fattuale, il grado di specificità delle allegazioni e la possibilità stessa di accertamento in via processuale.

Sul piano operativo, non vi è dubbio che il giudice può dichiarare il ricorso inammissibile per carenza di interesse, qualora risulti con chiarezza che, anche in caso di accoglimento, non ci sarebbe utilità alcuna per il ricorrente.

In parole semplici e quale esempio, in un contesto di gara, se l’amministrazione resistente dimostra – e non è contestato – che, anche attribuendo il massimo punteggio richiesto alla ricorrente, questa non raggiungerebbe la classifica dell’aggiudicataria, il ricorso può venir respinto per mancanza di prova di resistenza (principio evincibile, peraltro, anche da recenti pronunce in materia di appalti, tra cui Cons. Stato, Sez. V, 21 febbraio 2025, n. 1456).

Dunque, l’orientamento case-based e dottrinale più attuale invita perciò a un uso misurato e consapevole della prova della resistenza: essa non deve gravare in modo insostenibile sul ricorrente, ma neppure essere considerata un ostacolo fittizio, dovendosi ritenere innegabile la sua utilità, anche a fini deflattivi del contenzioso.

Alla luce di tali considerazioni, appare opportuno che l’applicazione della prova della resistenza mantenga un equilibrio tra l’esigenza di evitare un contenzioso privo di reale utilità e la garanzia, comunque indiscutibile, di un accesso effettivo alla giustizia. Un utilizzo eccessivamente formalistico di questo strumento rischierebbe di tradursi in una barriera ingiustificata, comprimendo il diritto di difesa e l’effettività della tutela giurisdizionale; al contrario, una lettura troppo indulgente vanificherebbe la funzione deflattiva e di razionalizzazione del processo.

La prospettiva più coerente sembra dunque quella che interpreta la prova di resistenza come criterio di serietà dell’azione: un filtro sostanziale che richiede al ricorrente di dimostrare la non inutilità della decisione, senza pretendere un’anticipazione piena dell’esito favorevole. In tal modo, il processo amministrativo, così come, d’altra parte, quello tributario, può perseguire la duplice finalità di efficienza e giustizia sostanziale, evitando al contempo ricorsi strumentali e ingiustificate preclusioni all’esercizio del diritto di agire.