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Le clausole ESG come espressione della funzione sociale assolta dal contratto di impresa: da strumento di scambio a veicolo di valori.

22/07/2025

A cura dell'avv. Paolo La Manna

Il panorama giuridico ed economico contemporaneo è permeato da una sempre più crescente ed ineludibile attenzione verso le tematiche di sostenibilità ambientale, sociale e di governance, riassunte nell’ormai celebre acronimo ESG (Environmental, Social, Governance).

Tale sensibilità, originariamente confinata in ambiti di soft law o di corporate social responsibility, ha progressivamente acquisito una cogenza giuridica, anche in forza di un imponente corpo normativo di matrice europea.

Basti pensare al Regolamento (UE) 2019/2088 (SFDR - Sustainable Finance Disclosure Regulation) che ha quale obiettivo una maggiore trasparenza nel settore finanziario in merito all’integrazione di fattori ambientali, sociali e di governance, oppure alla Direttiva (UE) 2022/2464 (CSRD - Corporate Sustainability Reporting Directive) – che impone obblighi di trasparenza e di rendicontazione non finanziaria, recepita nell’ordinamento interno con il D. Lgs. 6 settembre 2024, n. 125.

L’attuale transizione ordinamentale verso un’economia sostenibile sta progressivamente ed inevitabilmente riverberando i propri effetti anche sulla grammatica del diritto contrattuale. Si direbbe che gli schemi negoziali tra imprese, tradizionalmente incentrati sulla sinallagmaticità delle prestazioni a contenuto patrimoniale, vadano oggi arricchendosi di nuove dimensioni valoriali, rimaste, in precedenza, inesplorate o, comunque, per lo più relegate ai margini del diritto positivo.

L’autonomia privata codicistica, motore primo delle relazioni commerciali (art. 1322 c.c.), assurge, oggi, a strumento privilegiato per la promozione di condotte responsabili, divenendo il luogo elettivo per la traduzione di principi etici in obbligazioni giuridicamente vincolanti. È in questo fertile terreno che possono germinare e diffondersi le clausole ESG che, se correttamente strutturate, sono potenzialmente idonee a costituire manifestazioni di una volontà negoziale che trascende il mero scambio economico per abbracciare una finalità etica di più ampio respiro.

Volendo provare ad individuare una definizione pertinente alle clausole ESG, potremmo dire che esse possono essere intese come pattuizioni contrattuali mediante le quali le parti si obbligano, reciprocamente o unilateralmente, a rispettare specifiche regole etiche e/o di sostenibilità che le aziende possono decidere di perseguire nell’esercizio della propria attività, ovvero a compiere azioni positive volte a promuovere tali valori nell’esecuzione del rapporto.

Esse non rappresentano altro che l’incorporazione, all’interno del tessuto del contratto, di parametri di condotta che attingono a fonti eterogenee. Sotto il profilo genetico, infatti, è possibile operare una distinzione tra clausole di fonte unilaterale, spesso inserite in condizioni generali di contratto o in codici di condotta del committente, cui il fornitore o partner commerciale è tenuto ad aderire; clausole di fonte bilaterale, frutto della negoziazione tra le parti, che definiscono di comune accordo - con evidente maggiore equilibrio e maggiore adesione agli obiettivi prefissati - i reciproci impegni di sostenibilità, modulandoli secondo le specificità del rapporto; clausole derivanti da standard di settore, ovvero disposizioni che fanno rinvio a fonti esterne, quali normative tecniche. Si pensi, a titolo di esempio, alle certificazioni ISO 14001, una norma internazionale che specifica i requisiti per un sistema di gestione ambientale, oppure convenzioni internazionali (ad esempio, agli standard ILO in materia di lavoro) o principi di autodisciplina. Tale tecnica del rinvio - per relationem - consente di dotare il precetto contrattuale di un elevato grado di specificità e verificabilità.

Ciò senza dimenticare che la loro efficacia e interpretazione sono sempre e comunque presidiate dai canoni generali della buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.) e dell’equità contrattuale. La buona fede oggettiva, in particolare, opera, come noto, come criterio di integrazione del contenuto contrattuale, imponendo alle parti un dovere di leale cooperazione per la realizzazione non solo degli interessi economici, ma anche degli obiettivi di sostenibilità formalizzati nel negozio.

La casistica delle clausole ESG è ampia e in costante evoluzione, adattandosi alla varietà dei settori produttivi e degli obiettivi perseguiti. Non può, pertanto, essere esaustivamente passata in rassegna. Tuttavia, in ambito contrattuale, un esempio di prassi può essere costituito dalle previsioni talvolta inserite nei contratti di fornitura a lungo termine (long-term supply agreements), nelle quali si richiede al fornitore di adottare sistemi di gestione ambientale certificati (ad esempio secondo lo standard ISO 14001), oppure di rispettare stringenti obblighi in materia di diritti umani e condizioni di lavoro dignitose, nonché di accettare necessari meccanismi di verifica e controllo da parte della controparte.

Tali clausole, peraltro, possono prevedere espressamente la qualificazione del loro inadempimento come violazione grave, suscettibile di determinare la risoluzione del contratto per giusta causa, ai sensi dell’art. 1453 c.c., con facoltà di richiedere il risarcimento del danno ulteriore.

In altri e diversi ambiti contrattuali, come nel caso di appalto per servizi, invece, soprattutto se di durata pluriennale e relativi ad attività a rilevante ed elevato impatto ambientale o sociale (si pensi, ad esempio, a contratti di manutenzione di impianti, gestione rifiuti o servizi energetici), è sempre più frequente – nonché auspicabile - l’inserimento di clausole ESG che impongano all’appaltatore il rispetto di determinati standard di sostenibilità ambientale e di responsabilità sociale.

Tali previsioni contrattuali possono comprendere, tra l’altro, l’obbligo di utilizzare materiali a basso impatto ambientale, la preferenza per subappaltatori e fornitori certificati secondo standard ESG riconosciuti, la tracciabilità dei flussi di smaltimento, così come l’impegno a garantire la parità di genere e l’inclusione lavorativa nelle politiche aziendali.

Anche in questo caso, la clausola deve essere generalmente strutturata in modo da prevedere un sistema di audit, la segnalazione di eventuali violazioni e un termine per la loro rimozione. Il persistere dell’inadempimento comporta, di norma, la possibilità per il committente di risolvere il contratto in via anticipata per giusta causa, con ogni conseguenza risarcitoria.

Altre pattuizioni frequentemente utilizzate includono l’obbligo di rendicontazione periodica, quindi l’impegno a fornire report dettagliati sui consumi energetici, sulle emissioni di gas serra o su indicatori sociali (tra questi, ad esempio, il gender pay gap o i tassi di infortunio), le clausole “code of conduct” per la filiera, quindi l’obbligo per il fornitore di imporre i medesimi standard ESG ai propri sub-fornitori, creando un effetto a cascata di responsabilità lungo l’intera supply chain.  Sul fronte rimediale, non è rara la previsione di penali per inadempimento. Si tratta, in effettivi, di specifiche penali pecuniarie, come previste dall’art. 1382 c.c., commisurate alla gravità della violazione di determinati parametri ESG, che devono essere, naturalmente, chiari, misurabili e oggettivamente verificabili, anche ai fini della valutazione di congruità della penale.

L’impiego delle clausole ESG, tuttavia, non è esente da criticità. Il rischio principale, ampiamente noto, è costituito dal fenomeno del greenwashing, ovvero l’utilizzo di affermazioni di sostenibilità generiche e non verificabili a meri fini reputazionali, senza un reale impegno sostanziale. Per scongiurare tale pericolo, è imprescindibile che le clausole siano formulate quanto meno con un elevato grado di precisione, prevedendo, in maniera stringente, la presenza di indicatori di performance (KPI) misurabili e meccanismi di monitoraggio, audit e sanzione efficaci.

Emerge, inoltre, la necessità di un delicato bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica (art. 41 Cost.) e la responsabilità sociale d’impresa, che trova oggi un implicito riconoscimento costituzionale nella tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni (art. 9 Cost.). Le clausole ESG rappresentano uno degli strumenti attraverso cui l’autonomia privata si fa carico di questa responsabilità, orientando l’esercizio dell’attività d’impresa verso scopi che trascendono il profitto individuale.

In una prospettiva sistematica, tali pattuizioni potrebbero essere lette come una moderna espressione della “funzione sociale” della proprietà e, per analogia, del contratto. Se il contratto è lo strumento per eccellenza della circolazione della ricchezza, l’inserimento di vincoli ESG ne conforma l’esercizio a valori di utilità sociale, spingendo l’autonomia negoziale a contribuire positivamente al benessere della collettività e alla salvaguardia del creato.

Orbene, l’analisi delle clausole ESG sin qui svolta invita ad una riflessione che travalica i confini del diritto positivo per attingere a una dimensione etica.

Difatti, i principi che esse veicolano – tutela ambientale, dignità del lavoro, equità sociale – risuonano con particolare vigore se letti – liberamente, si intende - alla luce di un orizzonte di valori più ampio.

Encicliche come la Caritas in Veritate di Benedetto XVI e la Laudato si’ di Papa Francesco offrono una cornice concettuale di straordinaria pertinenza. Esse richiamano a un’ecologia integrale, in cui la “cura della casa comune” è inscindibilmente legata alla giustizia per i poveri e al rispetto della dignità inalienabile di ogni persona umana: “vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana” (ivi, 217).

Il contratto, in questa visione, cessa di essere unicamente un’arena di interessi contrapposti per divenire un luogo di “comunione d’intenti”. Esso può così trasformarsi in uno strumento che, oltre a realizzare gli interessi economici delle parti, concorre attivamente alla costruzione del bene comune.

La responsabilità dell’impresa e, di riflesso, del giurista che ne assiste l’operato, in tal modo si espande. Non si tratta più, nel contesto attuale, di garantire esclusivamente la validità formale e l’efficacia sinallagmatica del negozio, ma di promuovere una contrattualistica evoluta, capace di farsi interprete delle sfide del nostro tempo. Il giurista è dunque chiamato a essere un “architetto” di relazioni contrattuali che siano non solo economicamente efficienti, ma anche giuridicamente solide ed eticamente responsabili, orientando l’autonomia privata verso quell’orizzonte di sostenibilità integrale che costituisce, oggi più che mai, un imperativo giuridico ed etico.