A cura dell'avv. Giuseppe Perillo
Il
recente vertice intergovernativo tenutosi in Italia ha rappresentato
un'occasione significativa per rilanciare il dibattito sui temi della
maternità. La decisione del Governo italiano di non accogliere la richiesta di
inserire nel comunicato finale un riferimento alla delicata e controversa
questione dell’interruzione volontaria di gravidanza, sollecitata da alcuni
paesi come Francia e Canada, ha suscitato vive polemiche. Questo acceso
dibattito si colloca nel contesto della recente riforma costituzionale in
Francia, che ha elevato a rango costituzionale (art. 34) il relativo diritto
pochi mesi fa.
Meno
controverso e maggiormente condiviso in sede europea, nonostante le diverse
sensibilità nazionali, è invece il diritto dei genitori a ricevere una tutela
più incisiva sul luogo di lavoro. Questo include il contrasto al fenomeno
odioso del licenziamento discriminatorio per ragioni legate alla gravidanza e
la promozione di una migliore conciliazione tra tempi di lavoro ed esigenze
della vita familiare.
Tali
diritti derivano il loro fondamento dall’art. 33 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea, architrave del sistema europeo di protezione (ai
sensi dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea e dell’art. 53 della stessa Carta)
al quale concorrono plurime fonti verso l’unico obiettivo di assicurare la
massima tutela possibile dei diritti fondamentali. Questi ultimi costituiscono
l’oggetto della Carta proclamata a Nizza e adattata a Strasburgo che, con il
Trattato di Lisbona, ha assunto il valore giuridico dei trattati; essi sono
salvaguardati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo al cui sistema
giurisdizionale l’Unione ha dichiarato di aderire.
Venendo
all’oggetto della presente disamina, l’art. 33 della Carta dei diritti
fondamentali dell’UE sancisce testualmente: “È garantita la protezione
della famiglia sul piano giuridico, economico e sociale. Al fine di poter
conciliare vita familiare e vita professionale, ogni persona ha il diritto di
essere tutelata contro il licenziamento per un motivo legato alla maternità e
il diritto a un congedo di maternità retribuito e a un congedo parentale dopo
la nascita o l’adozione di un figlio”.
In
attuazione dei principi richiamati, il legislatore europeo, pur in presenza di
un fenomeno complesso e variegato che riflette diverse sensibilità culturali,
sociali e nazionali, è riuscito a trovare un minimo comune denominatore con l’approvazione
della direttiva (UE) 2019/1158, adottata dal Parlamento Europeo e dal
Consiglio il 20 giugno 2019. La direttiva è stata recepita nel nostro
ordinamento con l’approvazione del D. Lgs. 30 giugno 2022, n. 105. Scopo
primario della disposizione normativa è quello di promuovere un maggiore
equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i
prestatori di assistenza, ribadendo ed ulteriormente specificando il divieto di
licenziamento della donna lavoratrice in gravidanza. Il decreto prevede
disposizioni per migliorare la conciliazione tra attività lavorativa e vita
privata per i genitori e i prestatori di assistenza, al fine di conseguire la
condivisione delle responsabilità di cura tra uomini e donne e la parità di
genere in ambito lavorativo e familiare. Salvo che sia diversamente
specificato, le sue previsioni si applicano anche ai dipendenti delle pubbliche
amministrazioni, ferme restando le eventuali indicazioni operative fornite dal
competente Dipartimento della Funzione Pubblica (Circolare I.N.P.S. n. 122 del
27-10-2022).
Più
precisamente, l’articolo 2 del menzionato decreto legislativo apporta una serie
di modifiche al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, novellando la
disciplina in materia di congedo di maternità e di paternità (articoli 2, 18,
27-bis, 28, 29, 30 e 31-bis), di congedo parentale e di riposi, permessi e
congedi (articoli 32, 34, 36, 38, 42 e 46), di congedi per la malattia del
figlio (articolo 52), di lavoro notturno (articolo 53), ribadendo ed
ulteriormente specificando il divieto di licenziamento (articolo 54) e
il diritto al rientro e conservazione del posto (articolo 56).
La
giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di consolidare un orientamento
del tutto conforme alla ratio ispiratrice del descritto quadro
normativo. Con sentenza n. 5476 Cassazione Civile, Sez. Lav., del 26 febbraio
2021, la Suprema Corte ha accolto il ricorso di una lavoratrice che si riteneva
ingiustamente discriminata in quanto licenziata per ragioni connesse al suo
stato di gravidanza. Nel dettaglio, la Suprema Corte ha esaminato il caso del
mancato rinnovo di un contratto a termine a una lavoratrice in gravidanza,
qualificandolo come discriminazione diretta ed enucleando la seguente massima: costituisce
discriminazione di genere diretta la decisione datoriale di non rinnovare a una
lavoratrice il contratto a tempo determinato per ragioni collegate al suo stato
di gravidanza, qualora risulti che il datore abbia contestualmente concesso il
rinnovo del contratto a tutti i colleghi in analoghe condizioni contrattuali.
Peraltro,
la giurisprudenza di legittimità ha più volte richiamato i principi espressi a
seguito di casi sottoposti all’esame della Corte di Giustizia Europea, in
ordine all'applicazione delle norme di tutela nel periodo di maternità. Una pietra
miliare, in questo senso, è la vicenda che riguardava una cittadina dell’Unione
Europea, membro del consiglio di amministrazione di una società a
responsabilità limitata lettone, alla quale l’assemblea dei soci revocava le
funzioni apparentemente in ragione dello stato di gravidanza. La Corte ha
valutato la posizione del membro del consiglio alla luce delle modalità di
espletamento dell’incarico all’interno della società. La Corte ha ritenuto che
un membro di un consiglio di amministrazione di una società di capitali, che
fornisca prestazioni alla società e che ne formi parte integrante, debba essere
considerato “lavoratore” ai fini dell’applicazione della direttiva comunitaria
92/85/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il
miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici
gestanti, puerpere o in periodo di allattamento. In un lungo e complesso excursus
giuridico, la Corte di Giustizia Europea ha affermato che il divieto di
licenziamento, operante dall’inizio della gravidanza al termine del congedo di
maternità, trova applicazione anche qualora l’incarico di membro del consiglio
di amministrazione di una società di capitali sia svolto in virtù di un mandato
revocato in ragione dello stato di gravidanza. Infatti, la nozione di
“lavoratore” ai sensi della direttiva non può essere interpretata in vario modo
con riferimento agli ordinamenti nazionali, ma dev’essere definita in base a
criteri obiettivi che caratterizzino il rapporto di lavoro sotto il profilo dei
diritti e degli obblighi delle persone interessate (Sentenza C-232/09 dell’11
novembre 2010).
In
conclusione, può dirsi che il recente vertice intergovernativo in Italia ha
catalizzato un dibattito intenso sui diritti legati alla maternità,
evidenziando la complessità e la varietà di sensibilità culturali e sociali tra
i paesi membri dell'Unione Europea. Mentre la decisione di non inserire nel
comunicato finale un riferimento all'interruzione volontaria di gravidanza ha
sollevato polemiche, è emerso un ampio consenso riguardo alla necessità di
tutelare i genitori sul luogo di lavoro. Fondato sull’art. 33 della Carta dei
diritti fondamentali dell'UE, questo diritto si è concretizzato nella direttiva
(UE) 2019/1158, recepita nell'ordinamento italiano con il D. Lgs. 30 giugno
2022, n. 105, che mira a promuovere equilibrio tra vita professionale e
familiare. La giurisprudenza europea ha ulteriormente sottolineato l'importanza
di proteggere le lavoratrici in gravidanza da discriminazioni, confermando che
il divieto di licenziamento si estende per tutto il periodo della maternità.
Questi sviluppi giuridici riflettono un impegno comune verso la parità di
genere e il rispetto dei diritti fondamentali nell'ambito lavorativo e
familiare, consolidando un quadro normativo che mira a garantire giustizia e
uguaglianza per tutti.