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Il patto di non concorrenza tra imprese: requisiti di validità. Disciplina antitrust ed abuso di dipendenza economica

23/05/2023

A cura dell'avv. Paolo La Manna

L’art. 2595 c.c. stabilisce il principio generale secondo cui “la concorrenza deve svolgersi in modo da non ledere gli interessi dell’economia nazionale e nei limiti stabiliti dalla legge”.

La “concorrenza”, termine diffuso nelle scienze economiche che non si sottrae all’interpretazione giuridica, implica, come noto, una competizione tra soggetti che condividono un obiettivo che non tutti possono conseguire in egual misura. Una competizione che si verifica in definiti contesti di risorse scarse, in cui molteplici operatori economici si fronteggiano per conseguire la maggior parte delle risorse disponibili o, quanto meno, quella parte delle risorse idonea ad esaurire le proprie capacità produttive.

Tuttavia, tale competizione, i cui frutti - quando sana e conforme ai principi di legge - non solo concorrono allo sviluppo economico ma anche al progresso sociale, deve svolgersi “nei limiti stabiliti dalla legge”.

Tra i limiti di legge, vi sono sicuramente quelli previsti e stabiliti dall’art. 2596 c.c. in merito alla formazione di regolamenti negoziali tra imprese che abbiano effettivi restrittivi della concorrenza: “il patto che limita la concorrenza deve essere provato per iscritto. Esso è valido se circoscritto ad una determinata zona o ad una determinata attività, e non può eccedere la durata di cinque anni”.

Da ciò si desume immediatamente che il patto di non concorrenza:

§  è sottoposto alla forma scritta ad probationem, sebbene giurisprudenza più risalente, in caso di contratto di vendita o somministrazione per i quali non sia richiesta la forma scritta, atteso il principio generale della libertà delle forme, stabilisce che la clausola resti sottoposta solo alla medesima disciplina formale del contratto nel suo complesso; è del tutto pacifico, invece, che il patto di non concorrenza debba essere specificamente approvato per iscritto dall’altra parte quando contenuto in moduli, formulari o condizioni generali di contratto di formazione unilaterale, secondo quanto previsto dall’art. 1341, comma 2, c.c.;

§  è valido se circoscritto ad una determinata area territoriale o circoscritto a specifiche attività o settori di produzione, dovendo quindi avere i requisiti della determinatezza geografica e merceologica;

§  è efficace per un arco temporale massimo di cinque anni.

Sebbene tali requisiti siano stati ampiamente dibattuti dalla dottrina e rielaborati dalla giurisprudenza secondo molteplici orientamenti che non potranno essere discussi in questa sede, può dirsi, in via generale, che l’art. 2596 c.c. disciplina le limitazioni della concorrenza pattuite tramite accordi convenzionali, che possono vietare a qualcuno di competere o imporgli di farlo secondo determinate modalità. Si tratta, quindi, di limitazioni che si basano sulla volontà dei contraenti di non esercitare la propria libertà di iniziativa economica, secondo determinate regole pattuite.

I "patti che limitano la concorrenza", dunque, sono accordi che circoscrivono la libertà di negoziazione dei contraenti. Tali accordi riducono i margini di concorrenza, riducendo la libertà di iniziativa economica. Si tratta di limitazioni della competizione che si basano sulla restrizione della volontà, impedendo certi atti o imponendo altri.

Si tratta, in effetti, di accordi che regolano il rapporto tra l’autonomia individuale degli operatori economici ed il mercato stesso, in rapporto di stretta interconnessione, giacché il mercato dipende dall'autonomia individuale e i vincoli all'autonomia influenzano inevitabilmente il funzionamento del mercato. La norma sui patti di non concorrenza riconosce, da un lato, l'ampiezza dell’autonomia privata, compresa la libertà di iniziativa economica, ma allo stesso tempo protegge tale libertà limitandola parzialmente.

Anteposta questa doverosa premessa, è bene chiarire che i privati possono sì restringere la libertà negoziale, ma non eliminarla del tutto. Difatti, la regola sui patti di non concorrenza si aggiunge ad altre norme del codice civile che stabiliscono “limiti alle limitazioni”, impedendo a qualcuno di rinunciare completamente all’attività economica, anche a fronte di un compenso. Ciò nel solco dell’art. 1322, comma 1, c.c. il quale nel riconoscere alle parti di determinare liberamente il contenuto del contratto, evidenzia che ciò debba comunque avvenire secondo “i limiti imposti dalla legge”.

La disciplina codicistica, sin qui sinteticamente descritta, non può non tener conto dalla normativa sull’abuso di dipendenza economica, nonché della normativa antitrust interna ed europea, con particolare riferimento all’art. 2, l. 10 ottobre 1990, n. 287 (c.d. legge antitrust) ed all’art. 101 TFUE (già art. 81 TCE), ove è stabilita la nullità delle intese anticoncorrenziali.

Basti pensare che, secondo parte della dottrina, la normativa per la tutela della concorrenza e del mercato dovrebbe addirittura ritenersi incompatibile con l’art. 2596 c.c., secondo quanto previsto dal meccanismo di incompatibilità previsto dall’art. 15 delle preleggi, comportando, conseguentemente, l’implicita abrogazione della norma codicistica.

In base alla normativa italiana, non ogni convenzione restrittiva della concorrenza è considerata nulla. La legge italiana n. 287 del 10 ottobre 1990 stabilisce che solo le intese che impediscono, restringono o falsano in modo significativo il gioco della concorrenza sul mercato nazionale o in una sua parte rilevante sono vietate.

Allo stesso modo, l'articolo 101 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE) dichiara la nullità degli accordi tra imprese che possano pregiudicare il commercio tra gli Stati membri e che abbiano lo scopo o l'effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato interno.

La disciplina antitrust regola anche atti che non sono coperti dall’art. 2596 c.c., come le pratiche concordate e le deliberazioni delle associazioni di imprese. Tuttavia, l’art. 2596 c.c. continua ad applicarsi nei casi in cui il patto, sebbene limiti la libertà di iniziativa economica e la concorrenza, non soddisfa i requisiti delle intese e degli accordi vietati. L’art. 2596 c.c. regola anche le convenzioni che non sono vietate dalle regole antitrust, comprese quelle che non influenzano i meccanismi economici del mercato. Inoltre, tale articolo si applica ai patti che, sebbene vietati in linea di principio, presentano condizioni meritevoli di tutela secondo l’art. 101, paragrafo 3, del TFUE, che prevede vantaggi sufficienti in termini di efficienza che compensino gli effetti anticoncorrenziali.

È importante notare che anche le convenzioni ammesse dalla disciplina antitrust devono essere stipulate per iscritto come prova, essere circoscritte a una zona o a un'attività specifica e non durare più di cinque anni. Inoltre, l'applicazione delle norme del Codice Civile non può essere esclusa dimostrando un effetto positivo per il mercato.

Le due discipline, antitrust e Codice Civile, hanno finalità diverse: la prima considera l'impatto macroeconomico delle intese o degli accordi, mentre la seconda protegge gli interessi individuali e la libertà negoziale.

Inoltre, è necessario un cenno alla disciplina che sanziona l’abuso di dipendenza economica. Essa non si sovrappone a quella dell'articolo 2596 c.c., poiché si occupa di un fenomeno diverso che può verificarsi attraverso l’imposizione di una limitazione alla concorrenza. L'abuso di dipendenza economica consiste nell'imporre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie secondo la legge del 18 giugno 1998, n. 192. Se la pattuizione integra un abuso della dipendenza economica, può rappresentare una condizione ingiustificatamente gravosa e discriminatoria imposta da una parte all’altra per la conclusione di un contratto. Tuttavia, ciò che è vietato è l’imposizione dell’accordo attraverso l’abuso, non il contenuto stesso dell'accordo.

Come può evincersi dal quadro sintetico qui delineato, la disciplina delle limitazioni alla libertà della concorrenza trova fondamento in una peculiare ed articolata disciplina interna e sovranazionale, che rende imprescindibile, in sede di negoziazione, la valutazione - caso per caso - dell’adeguatezza della clausola nonché della sua piena rispondenza ai canoni di legittimità, validità ed efficacia.