A cura dell'avv. Paolo La Manna
La
paga oraria di 4 Euro viola il principio di proporzionalità della retribuzione alla
qualità ed alla quantità dell’opera prestata e lede diritto del lavoratore ad
un'esistenza libera e dignitosa per sé e per la propria famiglia, così come
previsto e stabilito inderogabilmente dall’art. 36 della Costituzione,
con cui si pone in palese ed evidente contrasto.
Lo ha
deciso il giudice del lavoro del Tribunale di Milano, stabilendo che la paga
oraria di esatti Euro 3,96, costringeva una lavoratrice a vivere sotto la soglia
di povertà – stimata dall’Istat, per l’anno 2021, in 852 Euro mensili per
un solo componente familiare, suscettibile di aumento in caso di famiglia con
figli – violando l’art. 36 della Carta, ove è stabilito che "il lavoratore ha
diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del
suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia
un'esistenza libera e dignitosa".
La
donna prestava servizio in favore di una importante e primaria società di
vigilanza privata ed era impiegata nel servizio di portierato in un magazzino
della grande distribuzione, potendo permettersi di vivere, peraltro, solo in un
luogo distante da quello in cui lavorava.
Il
Tribunale di Milano, quindi, ha condannato la società datoriale al pagamento di
372 Euro lordi in più per ogni mese di lavoro svolto, e quindi di 6.700 Euro
complessivi in favore della lavoratrice.
Tale
pronuncia, in vero, non è la prima. Difatti, per una vicenda pressoché analoga,
il Tribunale di Milano aveva già condannato un’altra società che aveva versato
la paga oraria di soli 4,40 Euro, in favore di un addetto alla vigilanza alle dipendenze
di una azienda appaltatrice che eseguiva il servizio in favore di un istituto
bancario multinazionale estero avente anche sede a Torino, ove il lavoratore era
effettivamente addetto.
Questi
casi, tuttavia, sono tutt’altro che isolati e, ad oggi, per analoghi illeciti,
pendono circa 30 giudizi innanzi al Tribunale di Padova, relativi alle
rivendicazioni di lavoratori che, per portare a casa uno stipendio minimamente
dignitoso, sono costretti a fare continui straordinari con un orario di lavoro
che supera anche le 12 ore quotidiane
Occorre
evidenziare, sotto il piano più squisitamente giuridico, che la vicenda de
quo, trae fondamento giuridico nel diritto costituzionale vivente, in cui l’art.
36 della Costituzione, ha assunto il valore di norma precettiva, prima per
opera della dottrina e poi della giurisprudenza, di legittimità e
costituzionale (Cfr. Cass., n. 461/1952; Corte cost., n. 30/1960.): esso
attribuisce al lavoratore un diritto soggettivo perfetto alla giusta
retribuzione.
L’art.
36 Cost., dunque, è stato considerato norma direttamente applicabile nei
rapporti individuali quale precetto inderogabile, oggetto, nel tempo, di
molteplici interventi di natura giurisprudenziale.
Al pari
della normativa nazionale, anche i Trattati europei, seppur con evidenti
criticità di efficacia, riconoscono, inoltre, come l’Unione Europea promuova la
libera circolazione dei lavoratori (artt. 45 – 48 TFUE) e l’equità di
trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione ed impiego (art. 157
TFUE), avendo come obiettivo il riavvicinamento delle politiche nazionali per
promuovere l’occupazione (artt. 114 – 117 e art. 148 TFUE), nonché “il
miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro
parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo
sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale
elevato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione” (art. 151 TFUE).
Oltre a queste previsioni di carattere generale, difatti, nel corso del
tempo, le istituzioni europee sono intervenute per regolare aspetti specifici
nell’ambito dei rapporti di lavoro, creando un quadro estremamente complesso e
stratificato, in cui strumenti “with teeth”, vincolanti, come le direttive, si affiancano ad
interventi non-legally binding, un messaggio politico che l’UE invia agli Stati membri.
È il caro della Raccomandazione che, nel 2017, ha posto le
basi per il c.d. pilastro dei diritti sociali, un insieme di principi
finalizzati a guidare le politiche europee e nazionali inerenti a lavoro,
occupazione, assistenza e previdenza sociale, disponendo, in ordine alle
questioni retributive che:
(a) I
lavoratori hanno diritto a una retribuzione equa che offra un tenore di
vita dignitoso.
(b) Sono
garantite retribuzioni minime adeguate, che soddisfino i bisogni del
lavoratore e della sua famiglia in funzione delle condizioni
economiche e sociali nazionali, salvaguardando nel contempo l’accesso al lavoro
e gli incentivi alla ricerca di lavoro. La povertà lavorativa va
prevenuta.
(c) Le
retribuzioni sono fissate in maniera trasparente e prevedibile,
conformemente alle prassi nazionali e nel rispetto dell’autonomia delle parti
sociali.
Si tratta
però di uno strumento, come già anticipato, con un’efficacia molto limitata. Le
raccomandazioni, infatti, ai sensi degli artt. 288 e 293 TFUE, infatti, non hanno
efficacia vincolante e traducono essenzialmente un messaggio politico, senza
obbligare in alcun modo gli Stati dell’Unione ad implementare le relative
previsioni.
Pertanto,
al di là del quadro normativo delineato in via sintetica, non deve trascurarsi,
peraltro, un elemento di natura sociale ed economica, in cui il diritto trova
fondamento.
A
fronte di talora possibili e concrete rivendicazioni strumentali e speculative da
parte dei lavoratori – e non è questo il caso – esistono anche interi settori
dell’economia legale e dei servizi che in violazione o elusione dei doveri previsti dalle clausole sociali,
acconsentono a che siano tollerati simili condotte lesive dei principi
costituzionali posti ad inderogabile presidio della proporzionalità del
compenso di ogni lavoratore e del diritto ad un’esistenza libera e dignitosa.
Occorrerà,
pertanto, nell’equilibrio tra diritti e doveri nel mondo del lavoro, un
rinnovato impegno dell’imprenditoria e dei lavoratori, al fine di tenere ben
presente quanto stabilito dalla nostra Carta costituzionale, anche alla luce
delle interpretazioni giurisprudenziali, in relazione alle quali, la recente
sentenza pone un punto fermo di rilevanza primaria.