A cura dell'avv. Giuseppe Perillo
Nel corso delle ultime settimane, organi di stampa e mass media hanno
dato particolare risonanza alla recente attivazione da parte della Commissione
Europea di una procedura di infrazione a carico dello Stato italiano, di cui è
stata censurata la legislazione interna che ha subordinato l’accesso ai
benefici del reddito di cittadinanza al requisito dei 10 anni di
residenza sul territorio nazionale, in sospetta violazione
Più precisamente, la Commissione ha deciso di avviare una procedura di
infrazione inviando una lettera di costituzione in mora all'Italia (INFR(2022)4024),
in ragione del fatto che il suo regime di reddito minimo non è in linea con il
diritto dell'UE in materia di libera circolazione dei lavoratori, diritti dei
cittadini, soggiornanti di lungo periodo e protezione internazionale.
Scrive in proposito la Commissione: “Una delle condizioni per
accedere al reddito di cittadinanza in Italia è di aver soggiornato nel paese
per 10 anni, di cui 2 consecutivi, prima di poter presentare la richiesta. A
norma del regolamento (UE) n. 492/2011 e della direttiva 2004/38/CE, le
prestazioni di sicurezza sociale come il "reddito di cittadinanza"
dovrebbero essere pienamente accessibili ai cittadini dell'UE che sono
lavoratori subordinati o autonomi o che hanno perso il lavoro, indipendentemente
da dove abbiano soggiornato in passato. Inoltre, i cittadini dell'UE non
impegnati in un'attività lavorativa per altri motivi dovrebbero poter
beneficiare della prestazione alla sola condizione di essere legalmente
residenti in Italia da almeno tre mesi. Oltre a ciò, la direttiva
2003/109/CE prevede che i soggiornanti di lungo periodo provenienti da paesi
terzi (extra UE) abbiano accesso a tale prestazione. Pertanto, il requisito
dei 10 anni di residenza si configura come discriminazione indiretta, in quanto
è più probabile che i cittadini non italiani non riescano a soddisfare tale
criterio. Inoltre, il regime di reddito minimo italiano discrimina direttamente
i beneficiari di protezione internazionale, i quali non hanno accesso a
tale prestazione, in violazione della direttiva 2011/95/UE. Il requisito della
residenza, infine, potrebbe impedire agli italiani di trasferirsi al di fuori
del paese per motivi di lavoro, in quanto non avrebbero diritto al reddito
minimo al rientro in Italia. L'Italia dispone ora di 2 mesi per rispondere ai
rilievi espressi dalla Commissione, trascorsi i quali quest'ultima potrà
decidere di inviare un parere motivato".
Il procedimento sanzionatorio in esame offre il destro per una breve
riflessione in ordine al delicato - e per certi aspetti controverso - tema
relativo all’efficacia in concreto delle fonti comunitarie nel nostro ordinamento,
nell’ambito delle politiche di sicurezza ed assistenza sociale oggetto,
peraltro, anche dell’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E.
L’art. 17, par. 1, T.U.E. (Trattato sull’Unione Europea), prevede
espressamente che sia la Commissione europea “custode dei Trattati” a vigilare
sull’applicazione del diritto “comunitario”.
Tale attività di vigilanza, ai sensi dell’art. 258 T.F.U.E., consiste nel
potere di avviare la procedura di infrazione allo scopo di accertare e far
cessare il comportamento di uno Stato membro che sia in contrasto il diritto
comunitario, allo scopo di garantire l’uniformità dell’applicazione del diritto,
in ultima istanza devoluta alla Corte di Giustizia della Comunità europea, competente
a pronunciarsi sulla corretta interpretazione delle disposizioni “comunitarie”.
Venendo al caso di specie, la Commissione europea ipotizza la violazione di fonte primaria di diritto comunitario ad efficacia diretta ed immediata nel nostro ordinamento e segnatamente dell’art. 45.T.F.U.E. (par. 2) nell’ambito del Trattato il cui scopo precipuo può essere riassunto nella progressiva implementazione di un mercato interno privo di barriere doganali o commerciali nella più ampia cornice di un’Unione politica, economica e monetaria. I pilastri del mercato interno sono le cosiddette 4 libertà fondamentali: la libera circolazione di merci, servizi, capitali, ma soprattutto persone e quindi lavoratori.
Ad essere minacciata, ad avviso
della Commissione, è proprio quella libera circolazione dei lavoratori
all'interno dell’Unione prevista dagli articoli 45, 46 e 47 del TFUE, un tempo
prevista dagli articoli 48 a 51 del previgente trattato CE. Difatti, le
questioni inerenti al diritto, sancito dai trattati, della parità di
trattamento tra i lavoratori nazionali e quelli provenienti da altri Stati
membri per quanto riguarda l'assunzione, la retribuzione e le altre condizioni
di lavoro sono state, infatti, in larga misura disciplinate dal regolamento del
Consiglio del 1968, sul principio di libera circolazione dei lavoratori e costituiscono
acquis comunitarie. In nome di tale principio vengono garantiti ai
cittadini comunitari la mobilità geografica e professionale nonché un livello
minimo di integrazione sociale nel paese di occupazione.
Da ciò prende le mosse la
sonora contestazione mossa dalla Commissione europea secondo cui la contestata previsione,
difatti, suonerebbe ingiustamente limitativa e penalizzante per i diritti dei
cittadini U.E. trasferitisi sul territorio nazionale
italiano da meno di dieci anni e priverebbe nel contempo del beneficio anche i
cittadini stranieri lungo soggiornanti ossia quanti in possesso, da almeno 5
anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità (a condizione che
dimostrino la disponibilità di un reddito minimo non inferiore all’assegno
sociale annuo e la conoscenza della lingua italiana).
Tale previsione, difatti, suonerebbe ingiustamente limitativa e
penalizzante anche per i diritti dei cittadini beneficiari di protezione
internazionale i quali, dall'11 marzo 2014, a seguito dell'entrata in vigore
del D. Lgs. n. 12/2014, che ha recepito la Direttiva 2011/52/UE, hanno la
possibilità di ottenere il permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo
periodo.
in caso
di inadempimento dello Stato, qualora venisse confermata la violazione del
diritto U.E dalla Corte di Giustizia comunitaria, in nome dei principi
stabiliti da quest’ultima in innumerevoli pronunce come nei casi Simmenthal
e Francovich, sussistono giustificati presupposti affinché i cittadini
U.E. e stranieri privati dalla possibilità di accesso al beneficio possano
sperimentare forme di peculiare tutela.
Più
precisamente essi potrebbero esigere dai Tribunali italiani, nell’esercizio del
cosiddetto sindacato diffuso, e per certi versi anche dalla P.A., la
disapplicazione della norma nazionale e, con essa, delle relative limitazioni,
invocando un adeguata tutela risarcitoria o indennitaria nel termine di
prescrizione quinquennale ex legge di stabilità 2012.
Infatti,
la procedura di infrazione non tutela direttamente i diritti del cittadino
assicurandogli un ristoro, in quanto la procedura è rivolta a diffidare ed
obbligare lo Stato inadempiente a conformarsi al diritto comunitario.
In vero,
solo con la sentenza Francovich è stata affermata la responsabilità
dello Stato per violazione del diritto U.E. sia per comportamento omissivo,
ovvero per non aver proceduto a recepire una direttiva, sia per comportamento
attivo consistito nell’emanazioni di atti legislativi contrari alle fonti del
diritto europeo.
In tale
circostanza, il privato leso nella sua posizione giuridica soggettiva, sia essa
di diritto soggettivo che di interesse legittimo, può chiedere allo Stato
inadempiente il risarcimento del danno alla presenza dei seguenti presupposti:
l’attribuzione certa di un diritto tramite una fonte comunitaria; nesso di
causalità tra violazione dell’obbligo e l’attribuzione del diritto; la
sussistenza di un danno risarcibile subito dal privato.
I sopra
esposti principi di diritto espressi sono stati ulteriormente precisati nella
sentenza Factortame della Corte di Giustizia la quale, oltre ad aver
ribadito quanto espresso nella sentenza Francovich, ha anche
sottolineato che sullo Stato grava un obbligo di controllo concernente
l’applicazione del diritto dell’Unione, su tutti i soggetti che esercitano
poteri pubblicistici quali le Regioni, P.A., funzionari e dirigenti
amministrativi e privati muniti di pubblici poteri.
Per
l’operato di questi soggetti risponde lo Stato centrale quando: la norma
europea attribuisca un diritto in capo al singolo; sia riscontrata la grave
manifesta violazione del diritto U.E.; sussista un nesso di causalità tra la
condotta del soggetto esercente la potestà pubblica e la violazione del diritto
in capo al privato.
I
principi espressi nelle sentenze Francovich e Factortame hanno
comportato un drastico ripensamento dei fondamenti classici del diritto
amministrativo italiano conducendo, inoltre, la giurisprudenza e la dottrina a
riflettere sulla natura giuridica della responsabilità per inadempimento dello
Stato. Sul punto si sono confrontate le tesi della responsabilità:
contrattuale/indennitaria, contrattuale/risarcitoria, extracontrattuale/risarcitoria.
Argomento
quest’ultimo che, seppur non privo di significativi risvolti processuali in
tema di onere probatorio – e non solo - esula dalla presente breve trattazione.