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Il Reddito di Cittadinanza al vaglio della Commissione Europea per violazione dell'art. 45 T.F.U.E.

01/03/2023


A cura dell'avv. Giuseppe Perillo


Nel corso delle ultime settimane, organi di stampa e mass media hanno dato particolare risonanza alla recente attivazione da parte della Commissione Europea di una procedura di infrazione a carico dello Stato italiano, di cui è stata censurata la legislazione interna che ha subordinato l’accesso ai benefici del reddito di cittadinanza al requisito dei 10 anni di residenza sul territorio nazionale, in sospetta violazione dell’art. 45 T.F.U.E. , par. 2 (Trattato per il Funzionamento dell’Unione europea).

 

Più precisamente, la Commissione ha deciso di avviare una procedura di infrazione inviando una lettera di costituzione in mora all'Italia (INFR(2022)4024), in ragione del fatto che il suo regime di reddito minimo non è in linea con il diritto dell'UE in materia di libera circolazione dei lavoratori, diritti dei cittadini, soggiornanti di lungo periodo e protezione internazionale.

 

Scrive in proposito la Commissione: “Una delle condizioni per accedere al reddito di cittadinanza in Italia è di aver soggiornato nel paese per 10 anni, di cui 2 consecutivi, prima di poter presentare la richiesta. A norma del regolamento (UE) n. 492/2011 e della direttiva 2004/38/CE, le prestazioni di sicurezza sociale come il "reddito di cittadinanza" dovrebbero essere pienamente accessibili ai cittadini dell'UE che sono lavoratori subordinati o autonomi o che hanno perso il lavoro, indipendentemente da dove abbiano soggiornato in passato. Inoltre, i cittadini dell'UE non impegnati in un'attività lavorativa per altri motivi dovrebbero poter beneficiare della prestazione alla sola condizione di essere legalmente residenti in Italia da almeno tre mesi. Oltre a ciò, la direttiva 2003/109/CE prevede che i soggiornanti di lungo periodo provenienti da paesi terzi (extra UE) abbiano accesso a tale prestazione. Pertanto, il requisito dei 10 anni di residenza si configura come discriminazione indiretta, in quanto è più probabile che i cittadini non italiani non riescano a soddisfare tale criterio. Inoltre, il regime di reddito minimo italiano discrimina direttamente i beneficiari di protezione internazionale, i quali non hanno accesso a tale prestazione, in violazione della direttiva 2011/95/UE. Il requisito della residenza, infine, potrebbe impedire agli italiani di trasferirsi al di fuori del paese per motivi di lavoro, in quanto non avrebbero diritto al reddito minimo al rientro in Italia. L'Italia dispone ora di 2 mesi per rispondere ai rilievi espressi dalla Commissione, trascorsi i quali quest'ultima potrà decidere di inviare un parere motivato".

 

Il procedimento sanzionatorio in esame offre il destro per una breve riflessione in ordine al delicato - e per certi aspetti controverso - tema relativo all’efficacia in concreto delle fonti comunitarie nel nostro ordinamento, nell’ambito delle politiche di sicurezza ed assistenza sociale oggetto, peraltro, anche dell’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E.

 

L’art. 17, par. 1, T.U.E. (Trattato sull’Unione Europea), prevede espressamente che sia la Commissione europea “custode dei Trattati” a vigilare sull’applicazione del diritto “comunitario”.

 

Tale attività di vigilanza, ai sensi dell’art. 258 T.F.U.E., consiste nel potere di avviare la procedura di infrazione allo scopo di accertare e far cessare il comportamento di uno Stato membro che sia in contrasto il diritto comunitario, allo scopo di garantire l’uniformità dell’applicazione del diritto, in ultima istanza devoluta alla Corte di Giustizia della Comunità europea, competente a pronunciarsi sulla corretta interpretazione delle disposizioni “comunitarie”.

 

Venendo al caso di specie, la Commissione europea ipotizza la violazione di fonte primaria di diritto comunitario ad efficacia diretta ed immediata nel nostro ordinamento e segnatamente dell’art. 45.T.F.U.E.  (par. 2) nell’ambito del  Trattato il cui scopo precipuo può essere riassunto nella progressiva implementazione di un mercato interno privo di barriere doganali o commerciali nella più ampia cornice di un’Unione politica, economica e monetaria. I pilastri del mercato interno sono le cosiddette 4 libertà fondamentali: la libera circolazione di merci, servizi, capitali, ma soprattutto persone e quindi lavoratori.


Ad essere minacciata, ad avviso della Commissione, è proprio quella libera circolazione dei lavoratori all'interno dell’Unione prevista dagli articoli 45, 46 e 47 del TFUE, un tempo prevista dagli articoli 48 a 51 del previgente trattato CE. Difatti, le questioni inerenti al diritto, sancito dai trattati, della parità di trattamento tra i lavoratori nazionali e quelli provenienti da altri Stati membri per quanto riguarda l'assunzione, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro sono state, infatti, in larga misura disciplinate dal regolamento del Consiglio del 1968, sul principio di libera circolazione dei lavoratori e costituiscono acquis comunitarie. In nome di tale principio vengono garantiti ai cittadini comunitari la mobilità geografica e professionale nonché un livello minimo di integrazione sociale nel paese di occupazione.

 

Da ciò prende le mosse la sonora contestazione mossa dalla Commissione europea secondo cui la contestata previsione, difatti, suonerebbe ingiustamente limitativa e penalizzante per i diritti dei cittadini U.E. trasferitisi sul territorio nazionale italiano da meno di dieci anni e priverebbe nel contempo del beneficio anche i cittadini stranieri lungo soggiornanti ossia quanti in possesso, da almeno 5 anni, di un permesso di soggiorno in corso di validità (a condizione che dimostrino la disponibilità di un reddito minimo non inferiore all’assegno sociale annuo e la conoscenza della lingua italiana).

 

Tale previsione, difatti, suonerebbe ingiustamente limitativa e penalizzante anche per i diritti dei cittadini beneficiari di protezione internazionale i quali, dall'11 marzo 2014, a seguito dell'entrata in vigore del D. Lgs. n. 12/2014, che ha recepito la Direttiva 2011/52/UE, hanno la possibilità di ottenere il permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo.

 

in caso di inadempimento dello Stato, qualora venisse confermata la violazione del diritto U.E dalla Corte di Giustizia comunitaria, in nome dei principi stabiliti da quest’ultima in innumerevoli pronunce come nei casi Simmenthal e Francovich, sussistono giustificati presupposti affinché i cittadini U.E. e stranieri privati dalla possibilità di accesso al beneficio possano sperimentare forme di peculiare tutela.

Più precisamente essi potrebbero esigere dai Tribunali italiani, nell’esercizio del cosiddetto sindacato diffuso, e per certi versi anche dalla P.A., la disapplicazione della norma nazionale e, con essa, delle relative limitazioni, invocando un adeguata tutela risarcitoria o indennitaria nel termine di prescrizione quinquennale ex legge di stabilità 2012.

Infatti, la procedura di infrazione non tutela direttamente i diritti del cittadino assicurandogli un ristoro, in quanto la procedura è rivolta a diffidare ed obbligare lo Stato inadempiente a conformarsi al diritto comunitario.

In vero, solo con la sentenza Francovich è stata affermata la responsabilità dello Stato per violazione del diritto U.E. sia per comportamento omissivo, ovvero per non aver proceduto a recepire una direttiva, sia per comportamento attivo consistito nell’emanazioni di atti legislativi contrari alle fonti del diritto europeo.

In tale circostanza, il privato leso nella sua posizione giuridica soggettiva, sia essa di diritto soggettivo che di interesse legittimo, può chiedere allo Stato inadempiente il risarcimento del danno alla presenza dei seguenti presupposti: l’attribuzione certa di un diritto tramite una fonte comunitaria; nesso di causalità tra violazione dell’obbligo e l’attribuzione del diritto; la sussistenza di un danno risarcibile subito dal privato.

I sopra esposti principi di diritto espressi sono stati ulteriormente precisati nella sentenza Factortame della Corte di Giustizia la quale, oltre ad aver ribadito quanto espresso nella sentenza Francovich, ha anche sottolineato che sullo Stato grava un obbligo di controllo concernente l’applicazione del diritto dell’Unione, su tutti i soggetti che esercitano poteri pubblicistici quali le Regioni, P.A., funzionari e dirigenti amministrativi e privati muniti di pubblici poteri.

Per l’operato di questi soggetti risponde lo Stato centrale quando: la norma europea attribuisca un diritto in capo al singolo; sia riscontrata la grave manifesta violazione del diritto U.E.; sussista un nesso di causalità tra la condotta del soggetto esercente la potestà pubblica e la violazione del diritto in capo al privato.

I principi espressi nelle sentenze Francovich e Factortame hanno comportato un drastico ripensamento dei fondamenti classici del diritto amministrativo italiano conducendo, inoltre, la giurisprudenza e la dottrina a riflettere sulla natura giuridica della responsabilità per inadempimento dello Stato. Sul punto si sono confrontate le tesi della responsabilità: contrattuale/indennitaria, contrattuale/risarcitoria, extracontrattuale/risarcitoria.

Argomento quest’ultimo che, seppur non privo di significativi risvolti processuali in tema di onere probatorio – e non solo - esula dalla presente breve trattazione.